Risponde del reato di rapina chi sottrae con forza il cellulare alla coniuge per cercare le prove di un tradimento.
La Corte di Cassazione, nella recentissima pronuncia n. 8821/2021, ha ritenuto che matrimonio e convivenza non possono comportare una limitazione al diritto di riservatezza del singolo coniuge ed il fatto che un soggetto abbia agito con l’intento di individuare le tracce di una relazione della consorte non può rappresentare un esimente.

La vicenda
Un uomo viene condannato per essersi impossessato con violenza del cellulare dell’ex moglie, cagionandole lesioni.
La Corte di appello di Firenze confermava la pronuncia del giudice di prime cure ravvisando in capo all’imputato responsabilità penale per il reato di rapina e lesioni in danno all’ex coniuge, da cui era peraltro già separato.
Avverso tale sentenza l’imputato proponeva ricorso per cassazione.
In particolare, secondo la difesa dell’imputato, questi nell’adottare la condotta illecita era incorso in un errore di fatto sulla liceità della sua iniziativa.
La sentenza impugnata, infatti, individuava l’ingiusto profitto nella volontà del marito di controllare il telefonino per trovare traccia di un rapporto clandestino della moglie, tuttavia ometteva di considerare che l’uomo aveva diritto di ricercare le prove di un fatto relativo alla violazione del dovere civilistico di fedeltà legato al vincolo matrimoniale.
A tale proposito il ricorrente, nel richiamare pronunce passate, sottolineava come la convivenza generasse una sorta di “consenso tacito” alla conoscenza delle comunicazioni, anche personali, del coniuge convivente.
In altri termini, si esclude qualsivoglia violazione della riservatezza ove il marito e la moglie “rovistino” all’interno dello smartphone del coniuge, per cercare prove della eventuale infedeltà.
Inoltre, la Corte di appello, nonostante l’imputato avesse dichiarato di aver seguito la ex moglie sul luogo di lavoro e di averla colpita solo dopo aver appreso della sua nuova relazione amorosa, aveva ritenuto di aderire alla versione dei fatti fornita dalla persona offesa, nella quale denunciava che la sottrazione era avvenuta con violenza e minaccia.
In linea con tale ricostruzione, peraltro, anche la testimonianza resa dalla datrice di lavoro della donna, che confermava di aver visto con i suoi occhi l’imputato mettere le mani addosso alla sua dipendente, facendola finire al pronto soccorso.
Tuttavia, la difesa del reo sottolineava che se da un lato tale rappresentazione potesse offrire riscontro all’accusa di lesioni, dall’altro però non potesse dimostrare che a queste fosse seguita la sottrazione del telefono.
Analogamente i referti che certamente non potevano confermare che le lesioni fossero dirette a sottrarre il telefono o piuttosto conseguenza dell’accertata infedeltà.
La decisione
Con la sentenza n. 8821/2021 la sezione II della Corte di Cassazione rigetta il ricorso dichiarandolo inammissibile e condanna il ricorrente alle spese processuali ed al pagamento della somma di 2.000 euro in favore della cassa delle ammende.
Secondo la Suprema Corte il ricorrente nel sostenere la tesi della liceità della sottrazione del telefono della moglie sulla base di una sorta di “assenso” derivante dalla convivenza, urta non solo contro l’evidenza, ma contro la giurisprudenza consolidata.
In particolare:
“l’impossessamento del telefono contro la volontà della donna integra una condotta antigiuridica, e l’ingiusto profitto consiste nell’indebita intrusione nella sfera di riservatezza della vittima, con la conseguente violazione del diritto di autodeterminazione nella sfera sessuale, che non ammette intrusione da parte di terzi e nemmeno del coniuge.”
Nel delitto di rapina, ex art. 628 c.p., il profitto può concretarsi in ogni utilità, anche solo morale, nonché in qualsiasi soddisfazione o godimento che l’agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene.
Nel caso in esame, le due sentenze di primo grado e di appello si integrano reciprocamente e soprattutto la sentenza di primo grado, cui fa rinvio esplicito la sentenza impugnata, la quale espone in maniera dettagliata il tenore delle dichiarazioni della persona offesa, che ha ricostruito in maniera coerente e costante le diverse fasi della aggressione.
Nello specifico la versione fornita dalla donna oltre ad essere intrinsecamente credibile ha trovato significativi riscontri nelle dichiarazioni della datrice di lavoro che ha avuto modo di assistere alla aggressione.
In conclusione, la Corte di appello aveva correttamente escluso che la condotta potesse essere qualificata in furto, ex art. 624 c.p., poiché nel caso di specie era stata commessa violenza alla persona.
VP