Le frasi offensive su Facebook anche per contrasti politici possono integrare il reato di Diffamazione.
La Vicenda
Un uomo viene condannato per il reato di diffamazione per aver pubblicato su un gruppo Facebook dei commenti offensivi diretti alla persona offesa.
Nello specifico, il reo insultava la vittima apostrofandola come “ignorante”, “cretino”, “sciacqua lattughe” ed altre esternazioni in dialetto siciliano, nell’ambito di un acceso scambio di idee di natura politica.
La Corte di merito osservava che il contesto politico non giustificasse in alcun modo la valenza evidentemente denigratoria delle frasi utilizzate, anche in considerazione della circostanza che l’uomo non perdeva occasione di intervenire, con espressioni offensive, per commentare qualsiasi esternazione della vittima, anche non inerente ad argomenti strettamente politici.
Tali attacchi risultavano del tutto pretestuosi ed evidentemente finalizzati ad insultare pubblicamente la vittima, che peraltro neanche conosceva personalmente, tanto è vero che questa aveva più volte diffidato l’imputato dal persistere nelle predette condotte.
Avverso la sentenza l’uomo ricorreva per Cassazione ritenendo che le frasi non avessero alcuna valenza offensiva né contenuto violento, costituendo meramente delle espressioni dialettali usuali tra persone tra loro in confidenza, le quali avevano da tempo scontri verbali per ragioni politiche.
La decisione della Suprema Corte
La Corte di Cassazione rigettava il ricorso, con la sentenza n.18057/2023.
A dire della Suprema Corte, la motivazione della sentenza impugnata appare del tutto coerente con la giurisprudenza di legittimità, secondo cui: “il limite della continenza nel diritto di critica è superato in caso di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato.”
Nel caso in esame, quindi, il contesto di contrasto politico appare del tutto genericamente evocato, apparendo, quindi, le frasi e gli epiteti utilizzati non inquadrabili neanche in un contesto di contrapposizione politica, né di dileggio personale tra soggetti legati da vincoli di conoscenza, con conseguente piena integrazione della condotta di diffamazione.
Gli ermellini hanno altresì precisato che: “benché determinati epiteti, quali quelli utilizzati dall’imputato, siano entrati nel linguaggio comune o rappresentino modalità verbali colloquiali, nondimeno la loro valenza offensiva non è stata vanificata dall’uso, ma semplicemente attenuata in riferimento, tuttavia, a contesti specifici – quali quelli di tipo colloquiale, personale, tra soggetti legati da vincoli di amicizia e simili -, dovendo ritenersi come la valenza denigratoria insita nel lemma lessicale si riespanda totalmente allorquando l’uso risulti del tutto gratuito, come verificatosi nel caso in esame.”
Invero, nella vicenda in commento, l’uso di forme verbali discutibili, di contenuto lesivo dell’onorabilità appiano ancora più evidenti se del tutto decontestualizzato da un contesto di critica politica.
Precisa infine la Corte che perché si integri il reato di diffamazione, non occorre che la persona offesa sia intimorita, e neanche che le frasi istighino o facciano riferimento alla violenza.
Conclusione
Il contrasto politico non giustifica le offese su Facebook, laddove queste valichino i limiti della continenza nel diritto di critica e laddove la natura politica venga impiegata come espediente per denigrare la vittima personalmente.