Hate Speech Online: lo scenario giuridico

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Se sei social conosci perfettamente l’argomento che andremo a trattare. I leoni da tastiera aggrediscono senza pietà e la violenza verbale è divenuta una modalità di comunicazione sempre più diffusa.

L’uso sempre più massiccio dei social media ha permesso agli Haters di proliferare, e non risparmia alcun settore. Tant’è vero che negli ultimi anni la politica impiega moltissimo le piattaforme in rete, abbandonando sempre più spesso le sedi solenni (ed opportune) e alimentando spesso un clima di tensione e divisione sociale.

Il dibattito politico in rete talvolta diventa terreno per discriminazione e violenza anzichè essere sede di confronto e scambio di opinioni.

Ciò che rammarica infatti è che l’incitamento all’odio, a cui assistiamo quotidianamente, che non fa distinzioni di età.

In realtà l’hate speech esiste da sempre, è intrinseco nella natura umana, ciò che è cambiato negli anni è la modalità e gli strumenti con i quali si manifesta. D’altronde l’odio offline e quello online mirano entrambi allo stesso obiettivo: deridere ed umiliare la vittima per ragioni di diversa natura: razziale, politica, sessuale, economica, etc.

Tuttavia la violenza verbale online ha ripercussioni spesso molto più gravi rispetto a quello vis a vis. Si basti pensare che i cyberbulli generalmente operano nei social celandosi sotto falso nome, impiegando nickname o nomi di fantasia. Con l’anonimato ci si sente legittimati a dire la propria, senza filtri.

La pericolosità dello speech virtuale risiede principalmente nella sua viralità. Un messaggio sbagliato può percorrere la rete ad una velocità impressionante, raggiungendo gli angoli più remoti del web. La possibilità di condividere un contenuto su diverse numerose piattaforme e l’assenza di confini geografici fa sì che esso possa essere visualizzato da milioni di utenti con conseguenze catastrofiche per il destinatario (i destinatari) della violenza, sia sul piano personale e privato quanto su quello pubblico.  

Vi è di più. Si è parlato tanto di diritto all’oblio, soprattutto a seguito dell’entrata in vigore del GDPR, tuttavia la rimozione di un contenuto inappropriato non è sempre di facile esecuzione, soprattutto quando varca i confini europei. Non sono mancati episodi in cui contenuti un tempo cancellati, riprendevano magicamente vita su altri canali social (talvolta anche sullo stesso).

Tutti questi fattori uniti alla frequente difficoltà di identificare l’hater (gli haters) portano talvolta la vittima a sentirsi disarmata ed indifesa. Quello che si genera è un ciclo di odio. Banalmente Tizio scrive un post su Facebook su Caio (o sulla società Alfa o sul Partito politico Beta, etc.). Sempronio condivide il post su Instagram, aggiungendo a sua volta un commento carico di ostilità. I followers di Sempronio, animati dal proprio beniamino, a loro volta condividono su altri social media, e via dicendo.

Ecco che si realizza il gioco al massacro. Quando una situazione, apparentemente innocua, assume una portata di tali dimensioni, la vittima si sente impotente perché non sa come fare cessare la violenza. Si realizza una vera e propria shit storming (letteralmente “tempesta di cacca”) ed arginare un fenomeno del genere diventa una missione impossibile, per non menzionare i danni all’immagine che la vittima patisce.

Leggi anche: Shit Storming

Ogni pretesto è valido per denigrare il prossimo, ma dove finisce la libertà di espressione e dove comincia la tutela della dignità umana?

Libertà di espressione Vs Dignità umana

Nel nostro ordinamento la libertà di espressione è un principio costituzionalmente garantito, come in tutti gli ordinamenti democratici. 

Tuttavia la manifestazione del proprio pensiero quando sfocia in una comunicazione feroce ed implacabile si scontra con la dignità della persona offesa.

Ad oggi le piattaforme hanno assunto un ruolo sociale tale che ogni limitazione nel loro uso può comportare una compressione della libertà di espressione.

I provider hanno l’ingrato compito di controllare ciò che viene pubblicato, compiere una valutazione sulla potenziale offensività del contenuto ed oscurarlo se ritenuto non conforme alle policy aziendali.

Ciò implica un apprezzamento in certa misura discrezionale e benché sia apprezzabile il tentativo di ridurre il grado di violenza che caratterizza la rete si presenta il rischio che le piattaforme digitali divengano gli arbitri della libertà di espressione, disponendo così, di fatto, del potere di selezione dei contenuti da diffondere e concorrendo con la potestà pubblica per antonomasia.

Può quindi il valore della dignità di un soggetto essere subordinato al principio della libertà di espressione e tale bilanciamento può essere demandato ad un soggetto privato?

Pare ragionevole puntualizzare che risulta difficile immaginare un’attribuzione a soggetti privati di funzioni più tipicamente espressive dell’autorità pubblica quali quelle, appunto, “rieducative”.  

Per quanto la responsabilizzazione dei gestori promossa ad es. nel contrasto dell’hate speech, del terrorismo o a tutela del copyright è certamente positiva, in quanto minimizza il rischio di un uso illecito del web, il delicato contemperamento tra il rispetto del valore della persona e la libertà di parola spetta necessariamente ed in ultima istanza sempre alla pubblica autorità, al fine di impedire tanto derive in senso lato censorie, quanto il rischio che la rete, da spazio di promozione dei diritti di tutti divenga il terreno su cui impunemente violarli.

Il quadro giuridico

L’esigenza di arginare e reprimere il fenomeno dell’hate speech online ha condotto il nostro Paese ad intervenire introducendo una normativa ad hoc, al fine di arricchire lo strumento penale che, in ogni caso, consente di reprimere una serie di condotte che vanno dall’espressione di un pensiero eversivo (es. l’apologia di un reato, cioè l’esaltazione di azioni criminali) all’istigazione al compimento di atti lesivi.

In materia di cyberbullismo, è stata infatti approvata la Legge n. 71/2017 per la tutela dell’infanzia e dell’adolescenza che ha inasprito le pene per i reati connessi e ha messo in rilievo il ruolo dei gestori delle piattaforme sulle quali vengono divulgati contenuti offensivi. I provider infatti sono tenuti a rimuovere ed oscurare i dati personali del minore diffusi in rete.

Anche l’AGCOM è intervenuta a più riprese per contrastare questo fenomeno, in ultimo approvando il “Regolamento recante disposizioni in materia di rispetto della dignità umana e del principio di non discriminazione e di contrasto all’hate speech”.

In ambito europeo si registrano diverse sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con le quali l’hate speech si è collocato in netto contrasto con i principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Già nel 2016 la Commissione europea aveva promosso un Codice di condotta per contrastare l’illecito incitamento all’odio online, che ha imposto ai grandi player (Facebook, Microsoft, Twitter, Youtube) specifici obblighi di collaborazione, tradotti poi nelle policy aziendali, in un potere di rimozione di contenuti ritenuti illeciti. In tal senso, si è voluto valorizzare il ruolo chiave delle piattaforme nel combattere i fenomeni di hate speech.

Il quadro legislativo tuttavia è in continuo divenire dovendosi adeguare all’avanzamento sempre più rapido del digitale.

In conclusione

Alla luce di quanto detto, la rete rimane, indubbiamente, uno straordinario strumento di promozione della cultura, dell’informazione, del pluralismo e della libertà di espressione.

Possiede però anche un lato oscuro che ospita ed amplifica espressioni e immagini diffamatorie, vessatorie, violente nel senso più lato del termine, spesso in danno di minoranze o dei soggetti più fragili.

La violenza verbale è un dato di fatto e sebbene non sia facile estirpare un fenomeno del genere – soprattutto in un contesto in cui coloro che alimentano l’odio tra la gente sono proprio coloro che dovrebbero dare il buon esempio e calmierare gli animi – gli strumenti di tutela esistono e sono a disposizione di tutti.

Appare evidente, se non altro, che un conto è esprimere la propria opinione un altro è commettere un reato con la propria opinione.

In ogni caso l’educazione ad un uso sano ed intelligente della tecnologia sebbene non possa rappresentare la panacea di tutti i mali, senza dubbio potrebbe contribuire a limitare i danni e a trasmettere un messaggio più positivo e di rispetto nei confronti del prossimo.

VP

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