La Cassazione è recentemente intervenuta su un caso di presunto illecito trattamento dati personali sanitari nell’ambito di un procedimento civile.
La vicenda
Un signore toscano conveniva in giudizio il padre per vedersi riconoscere un credito vantato nei confronti di quest’ultimo.
Nell’ambito del giudizio civile il padre, per giustificare l’infondatezza della pretesa creditoria, produceva la documentazione sanitaria del figlio attestante una sua grave patologia psichiatrica, al fine di dimostrare che la richiesta di denaro nascesse in realtà da un profondo risentimento nutrito da questi nei confronti dei genitori strettamente connesso alla sua critica situazione clinica.
Il figlio, ritenendo di aver subito una violazione del proprio diritto alla riservatezza, sporgeva denuncia querela nei confronti del padre, ravvisando un illecito trattamento di dati, ex art. 167 Codice della Privacy.
Da qui traeva origine il procedimento penale.
Avverso la decisione della Corte di Appello di Firenze, che ribaltava il giudizio di primo grado assolvendo il convenuto/resistente dal delitto ascrittogli, il ricorrente toscano proponeva ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.
A sostegno della propria tesi il ricorrente dichiarava che la diffusione, senza il suo consenso, della documentazione contenente dati sensibili afferenti alla sua sfera intima, gli avrebbe procurato danni sia di natura patrimoniale che non patrimoniale. Aggiungeva infine che la diffusione di dati riguardava una platea indefinita di soggetti, quali giudice, cancellieri, avvocati e praticanti avvocati e gli aveva determinato l’impossibilità di reinserirsi nel mondo del lavoro.
La decisione della Corte di Cassazione
Con la sentenza n. 23808/2019 (Link) la terza sezione penale della Corte di Cassazione rigettava il ricorso ritenendo che: “Il necessario requisito del nocumento richiesto per la configurazione del reato dall’art. 167 d.lgs. 196/2003 non può ritenersi sussistente, in caso di produzione in un giudizio civile di documenti contenenti dati personali, ancorché effettuata al di fuori dei limiti consentiti per il corretto esercizio del diritto di difesa, in assenza di elementi fattuali oggettivamente indicativi di una effettiva lesione dell’interesse protetto, trattandosi di informazioni la cui cognizione è normalmente riservata e circoscritta ai soli soggetti professionalmente coinvolti nella vicenda processuale, sui quali incombe un obbligo di riservatezza.”
La Suprema Corte dichiarava quindi inammissibile il ricorso, sposando le argomentazioni dei giudici di secondo grado.
In particolare, la Corte territoriale negava la sussistenza del reato, non perchè eccedente, non pertinente e contrario ai principi di correttezza nell’esercizio del diritto di difesa nel giudizio civile quanto perché rilevava l’assenza del requisito del nocumento.
La nozione di “Nocumento”
L’art. 167 D.Lgs 196/2003, modificato dal D.Lgs 101/2018, dispone: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre per se’ o per altri profitto ovvero di arrecare danno all’interessato, procedendo al trattamento dei dati personali di cui agli articoli 9 e 10 del Regolamento in violazione delle disposizioni di cui agli articoli 2-sexies e 2- octies, o delle misure di garanzia di cui all’articolo 2-septies ovvero operando in violazione delle misure adottate ai sensi dell’articolo 2-quinquiesdecies arreca nocumento all’interessato, è punito con la reclusione da uno a tre anni“.
Nell’attuale versione il requisito del nocumento è ancora richiesto, con l’ulteriore specificazione, rispetto al passato, che lo stesso deve essere arrecato all’interessato.
I Giudici di ultima istanza, richiamando precedenti pronunce giurisprudenziali, affermano che: “il nocumento è costituito dal pregiudizio, anche di natura non patrimoniale, subito dalla persona cui si riferiscono i dati quale conseguenza dell’illecito trattamento”
Il nocumento è da intendersi quindi quale elemento costitutivo del reato, avuto riguardo alla sua omogeneità rispetto all’interesse leso e alla sua diretta derivazione causale dalla condotta tipica, con conseguente necessità che esso sia previsto e voluto o, comunque, accettato dall’agente come conseguenza della propria azione, indipendentemente dal fatto che costituisca o si identifichi con il fine dell’azione stessa.
Alla luce di questa definizione il soggetto titolare dei dati o delle informazioni protette affinché si perfezioni il reato di illecito trattamento di dati personali deve subire un danno, di qualsiasi natura, quale conseguenza della predetta condotta.
Nel caso in esame il ricorrente adduce argomentazioni generiche in ordine al pregiudizio patito. Non offre considerazioni sulla prospettata diffusione dei dati né prova concretamente i danni subiti.
Quanto alla diffusione asserita dal ricorrente la Suprema Corte precisa che i soggetti che erano venuti a conoscenza delle informazioni prodotte erano parte del procedimento per ragioni professionali ed in quanto tali assoggettati al dovere di riservatezza.
In ultimo la Corte di Cassazione conclude che la facoltà di difendersi in giudizio utilizzando altrui dati personali va esercitata nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza stabiliti dalla legge. Sicché la legittimità della produzione di documenti contenenti tali dati va valutata in base al bilanciamento tra il contenuto del dato, cui va correlato il grado di riservatezza, e le esigenze di difesa.
Conclusione
Per le considerazioni sin qui svolte, pare possa concludersi che la produzione di documenti dai quali emergono dati personali, anche sensibili, è consentita purché nei limiti imposti dalla legge. Sarà quindi necessario una valutazione caso per caso della effettiva necessità di introdurre in un procedimento informazioni esorbitanti rispetto alla materia del contendere. In ogni caso il pregiudizio che ne consegue deve essere sempre supportato da specifiche argomentazioni.
VP