Risponde del reato di stalking ex art. 612 bis c.p. il soggetto che tempesta di messaggi WhatsApp un parente della vittima. E’ di questo avviso la Corte di Cassazione che si è espressa in tal senso con la sentenza n. 46834/2022.
Il caso
Un uomo veniva condannato per il delitto di atti persecutori aggravati nei confronti dell’ex compagna e del fratello della stessa; per il reato di diffamazione a mezzo Facebook e chat di WhatsApp nei confronti della donna nonché di lesioni aggravate nei confronti del fratello della vittima.
Avverso tale decisione l’imputato proponeva ricorso per Cassazione.
I motivi di ricorso
#1. La provocazione
Il ricorrente lamentava che la sentenza impugnata avrebbe dovuto ritenere configurabile la “provocazione”, quale causa di non punibilità ex art. 599 c.p., sia con riferimento al reato di stalking che a quello di diffamazione.
A suo dire, le offese non potevano essere punibili in ragione del difetto di proporzione rispetto alla azione che avrebbe posto in essere la vittima stessa.
Sussisterebbe, quindi, un difetto di analisi globale del dato istruttorio da parte della Corte di appello, anche in relazione alle censure relative ai pedinamenti, o meglio ai “passaggi” dell’imputato dinanzi all’abitazione della donna, ubicata in un piccolo centro abitato.
Secondo la difesa, tali passaggi sarebbero infatti stati occasionali e non funzionali a perseguitare la vittima.
#2. Gli atti persecutori nei confronti dei parenti della vittima
Il reo contesta, inoltre, che la Corte avrebbe errato nell’attribuire valore alle condotte di minacce, percosse e offese dell’imputato nei confronti delle persone care alla vittima (nello specifico il fratello), in quanto inidonee ad integrare li delitto di atti persecutori verso la donna.
Peraltro, la Corte territoriale avrebbe incongruamente ritenuto sussistente per la persona offesa lo stato di ansia e timore e il mutamento delle abitudini di vita, anche parziale, smentiti dalla reazione della vittima contenuta in file audio allegati.
La decisione della Suprema Corte
La quinta sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 46834/2022 conferma la condanna dell’uomo per i reati contestatigli.
In particolare, con riferimento alla censura inerente la provocazione nega la sua configurabilità nel caso di specie.
Posto che le reazioni della vittima risultino successive alle prime affermazioni diffamatorie dell’imputato, il che esclude la consequenzialità di azione e reazione richiesta dalla disciplina invocata.
Quanto alla proporzionalità dell’offesa rispetto all’azione posta eventualmente in essere dalla donna gli ermellini richiamano quanto dichiarato dalla Corte di appello nella sentenza impugnata.
Invero: “…Sebbene non occorra una vera e propria proporzione tra offesa e reazione, è comunque necessario che la risposta sia adeguata alla gravità del fatto ingiusto, che deve escludersi in presenza di una evidente sproporzione ricorrente nel caso in esame”.
La stessa Corte territoriale chiarisce che l’imputato reagisce alle affermazioni della donna – risultanti da uno scambio di messaggi fra lo stesso ed il fratello di lei – che riguardavano le scelte sentimentali della stessa, che aveva deciso di interrompere la relazione affettiva con l’imputato.
A tal fine la Cassazione specifica che, ai fini della integrazione del “fatto ingiusto altrui” è necessario che esso rivesta carattere di ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell’ambito di una determinata collettività in un dato momento storico e non valutate con riferimento alle convinzioni dell’imputato e alla sua sensibilità personale.
Pertanto, la valutazione soggettiva quale ‘ingiusta‘, compiuta dall’imputato in merito alla scelta sentimentale della persona offesa di lasciarlo, non può costituire oggettivo fatto ingiusto.
Sulla censura relativa alla irrilevanza, ai fini degli atti persecutori nei confronti della donna, delle condotte poste in essere nei confronti del fratello e del suo nuovo compagno, la Suprema Corte precisa che questa non risponda all’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, al quale peraltro la sentenza impugnata si è correttamente conformata.
Invero: “Integra li delitto di atti persecutori la reiterata ed assillante comunicazione di messaggi di contenuto persecutorio, ingiurioso o minatorio, diretta a plurimi destinatari ad essa legati da un rapporto qualificato di vicinanza, ove l’agente agisca nella ragionevole convinzione che la vittima ne venga informata e nella consapevolezza, della idoneità del proprio comportamento abituale a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice”.
In conclusione
Alla luce di quanto premesso, volendo soffermarci sulla questione che qui ci interessa, la condotta minacciosa o molesta nei confronti di soggetti diversi dalla vittima, ancorché ad essa legati da un rapporto qualificato (quale il rapporto di parentela nel caso di specie) assume rilevanza ove l’autore del fatto agisca nella consapevolezza che la stessa certamente sarà posta a conoscenza della sua attività intrusiva e persecutoria.
Attività peraltro volta a condizionarne indirettamente le abitudini di vita così da determinare, quale conseguenza voluta, l’impossibilità o, comunque, la difficoltà per la persona offesa di trovare un lavoro o di frequentare un determinato luogo.
VP