Keylogger: quando intercettare la posta elettronica del coniuge è reato (Cass. Pen, sez. V, sent. n. 30735/2020)

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Perché si integri il reato di intercettazione della corrispondenza informatica mediante Keylogger occorre che la condotta sia realizzata all’insaputa del soggetto intercettato.

Il caso

Nella vicenda in esame un uomo installava e configurava un programma informatico (cd. Keylogger) sul computer della moglie al fine di intercettare la sua posta elettronica e produceva tutto il materiale raccolto (messaggi ed allegati) nella pendente causa di separazione dalla stessa.

Il marito veniva condannato in primo grado alla pena di otto mesi e venti giorni di reclusione, nonché al risarcimento del danno in favore della moglie, costituitasi parte civile, per i delitti di cui all’art. 616 c.p., commi 1 e 4, artt. 617-bis e 617-quater c.p., tutti unificati dal vincolo della continuazione.  

La sentenza veniva confermata dalla Corte di appello di Roma ma successivamente impugnata dinanzi la Corte di Cassazione.

Il ricorrente eccepiva l’insussistenza dei reati contestatigli e chiariva che la violazione e la sottrazione della corrispondenza della moglie erano finalizzate all’esercizio di un diritto in sede giudiziaria.  

La decisione

Con la sentenza n. 30735 del 2020 la Suprema Corte accoglie il ricorso, ritenendolo fondato per le seguenti ragioni.

1. Esercizio di un diritto ex art. 51 c.p.

Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamentava la mancata applicazione da parte del Tribunale della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p., in relazione al delitto di cui all’art. 616 c.p., commi 1 e 4, per la violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza.

L’imputato dichiarava di aver commesso il fatto allo scopo di difendersi dinnanzi l’autorità giudiziaria.

Circostanza rigettata dalla Corte d’Appello, secondo la quale l’imputato non si era limitato a produrre in giudizio una corrispondenza privata di cui aveva occasionalmente preso conoscenza, ma aveva fraudolentemente carpito la corrispondenza attraverso l’installazione di uno specifico programma.

Tale comportamento configurava una violazione di un diritto fondamentale della persona offesa – la sua privacy – e pertanto:

NON poteva trovare giustificazione nell’esercizio del diritto di difesa.

Di contro, gli ermellini – con specifico riguardo all’art. 9, par. 2 lett. f), GDPR che prevede che il divieto di trattamento dei dati personali stabilito al par. 1, non si applichi ove il trattamento sia necessario per accertare, esercitare, difendere un diritto in sede giudiziaria e richiamando precedenti sentenze sulla materia –  ribadiscono che la nozione di giusta causa, ai sensi dell’art. 616 c.p., comma 2, non è fissata dalla legge e la sua identificazione è rimessa al giudice, che deve operare un bilanciamento tra contrapposti interessi.

Nello specifico, la produzione di documenti ottenuti illecitamente, seppur tramite la lesione di un diritto fondamentale, può essere scriminata per giusta causa, ai sensi dell’art. 616 c.p., comma 2, laddove costituisca l’unico mezzo per contestare le pretese della controparte e l’imputato riesca a dar prova della circostanza.

2. Insussistenza dei reati

Con il secondo motivo il ricorrente contestava la sussistenza dei reati ascrittigli.

In particolare, gli artt. 617-bis e 617-quater c.p. richiedono entrambi che le condotte in essi descritte siano attuate “fraudolentemente”, ossia con modalità tali da rendere non percettibile o riconoscibili le condotte stesse, che avvengono all’insaputa del soggetto che è parte della comunicazione.

Da questo ne discende che se l’agente ha reso manifesta la volontà di installare lo strumento che consente di intercettare la comunicazione e quindi di procedere all’intercettazione delle comunicazioni, prima che l’azione sia posta in essere, il reato è escluso.

Dall’atto di appello emergeva che:

L’installazione del programma che consentiva l’intercettazione delle attività di navigazione in internet era conosciuta alla moglie, in quanto attuata di comune accordo molti anni prima allo scopo di controllare la navigazione su internet della figlia minore per impedire che la stessa potesse utilizzare il computer per accedere a contenuti inappropriati, considerata la sua età; il programma informatico installato non consentiva di distinguere tra i vari utenti del sistema.

Ciononostante, la Corte di appello rigettava la tesi difensiva, affermando che la natura fraudolenta emergeva dall’intento dell’imputato di venire a conoscenza della corrispondenza elettronica privata della moglie:

Non potendo la intercettazione della corrispondenza informatica della moglie, peraltro attuata in un periodo in cui tra i due coniugi pendeva il giudizio di separazione personale, trovare giustificazione nell’intento di controllare l’attività informatica della figlia minore.

Secondo il giudice di 2° grado era altresì irrilevante che l’imputato avesse acquistato i computer installati nell’abitazione coniugale e che sempre egli avesse creati gli account della figlia e della moglie, in quanto era comunque stato accertato che il computer sul quale era avvenuta l’intercettazione era usato dalla moglie che esclusivamente tramite esso apriva, leggeva ed inviava la sua corrispondenza elettronica.

Tuttavia, la stessa Corte di appello affermava contraddittoriamente che la consulenza tecnica effettuata dal PM non era stata in grado di individuare a quanto tempo prima risalisse l’installazione e da quanto tempo avesse avuto inizio l’attività di intercettazione.

Questo aspetto, come precisato dalla Cassazione, confliggeva con le ragioni addotte dalla stessa Corte di appello per affermare la sussistenza dei reati e del dolo, non risultando esclusa la finalità indicata dal ricorrente e non potendo ritenersi provata oltre ogni ragionevole dubbio la natura fraudolenta della captazione.

L’installazione del programma informatico poteva infatti essere avvenuta anche prima della crisi coniugale ed esclusivamente allo scopo di tutelare la figlia minorenne.

Il ricorrente aveva infatti dichiarato che al momento della denuncia era già pendente il giudizio per la separazione personale dei coniugi e tale circostanza dimostrava il dolo.

Secondo la Suprema corte nel caso in questione non sussisteva neppure il delitto di divulgazione di corrispondenza di cui all’art. 616, commi 1 e 4, c.p.

Il software installato dall’imputato intercettava quanto veniva inviato alla casella di posta elettronica della moglie e quanto veniva dalla stessa trasmesso.

Il programma entrava in funzione quando la moglie si connetteva ad internet riprendendo e filmando i contenuti dei messaggi di posta elettronica ricevuti/inviati, che poteva visionarli in diretta, durante la loro trasmissione.

Le fattispecie punite dagli artt. 616 e 617-quater c.p. hanno ambiti operativi ben definiti dalla diversa configurazione dell’oggetto materiale della condotta, anche indipendentemente dalle specifiche connotazioni modali che la caratterizzano nell’art. 617-quater e che invece non sono previste nell’art. 616 c.p.

Mentre nell’ambito dell’art. 617-quater c.p. il termine corrispondenza assume un significato più ristretto e non comprende ogni forma di comunicazione, ma si riferisce alla comunicazione nel suo momento “dinamico” ossia in fase di trasmissione.

Nell’art. 616 c.p., il termine “corrispondenza” individua la comunicazione umana nel suo profilo “statico” e cioè il pensiero già comunicato o da comunicare fissato su supporto fisico o altrimenti rappresentato in forma materiale.

Nella vicenda di cui tratta l’imputato intercettava le comunicazioni nel corso della loro trasmissione, sicché, in applicazione del principio sopra esposto, non risultava applicabile l’art. 616, comma 1, c.p. (entrambi i commi contestati).

Analogamente non poteva sussistere il reato di cui all’art. 617-quater, comma 2, c.p. che punisce la divulgazione del contenuto della comunicazione intercettata, poiché nel caso di specie la divulgazione è avvenuta mediante la produzione delle e-mail in un giudizio di separazione personale dei coniugi pendente tra l’imputato e la persona offesa, modalità che è inidonea a rivelare il contenuto della comunicazione alla generalità dei terzi.

3. Assorbimento dei reati

Con riferimento alla terza doglianza del ricorrente sul mancato assorbimento dei reati di cui agli artt. 616 e 617-bis c.p. nel delitto previsto dall’art. 617-quater c.p., secondo la Corte di Appello quest’ultimo delitto non presentava elementi di specialità rispetto agli altri che quindi concorrevano con esso e non ne erano assorbiti.

Veniva altresì disattesa la tesi secondo la quale i tre reati sarebbero in rapporto di continenza perché la realizzazione dell’uno sarebbe stata impossibile senza la realizzazione dell’altro.

Il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 15 c.p. poiché il bene giuridico tutelato dagli artt. 616, 617-bis e 617-quater c.p. era il medesimo ed identico era l’oggetto delle varie norme, che regolavano la stessa materia.

La Cassazione, richiamando una pronuncia delle Sezioni Unite, precisa che:

In caso di concorso di norme penali che regolano la stessa materia, il criterio di specialità (art. 15 c.p.) richiede che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica si deve procedere mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle.

Il reato progressivo è un reato complesso in senso lato e il rapporto di continenza deve essere stabilito in via interpretativa dal giudice e l’assorbimento del reato minore in quello maggiore ha luogo solo laddove sia impossibile realizzare il reato maggiore senza realizzare quello minore.

Nel caso di specie, non sarebbero potute essere contestate al ricorrente le violazioni di cui agli artt. 616 e 617-quater c.p. se non fosse stato installato il software riferibile al delitto di cui all’art. 617-bis c.p., pertanto, l’assorbimento doveva ritenersi operante.

4. Estinzione dei reati e risarcimento del danno

Infine il ricorrente deduceva che i reati contestatigli erano estinti per prescrizione già nel momento in cui era stata pronunciata la sentenza di appello: non essendo stato possibile collocare nel tempo l’installazione del software che consentiva l’intercettazione dei messaggi, andava applicato il principio in dubio pro reo anche al termine iniziale della prescrizione.

Quanto alla condanna generica al risarcimento del danno ed al riconoscimento della provvisionale in favore della parte civile, era necessario che fosse accertata la potenzialità lesiva del fatto ed il nesso causale tra il reato ed il pregiudizio lamentato dalla parte civile, mentre nel caso di specie la sentenza non motivava su detti presupposti.

Entrambe le doglianza restavano assorbite negli altri motivi di ricorso.

Conclusione

Non è penalmente responsabile colui che produce in giudizio documenti ottenuti illecitamente tramite l’installazione di un keylogger sul computer della persona offesa, qualora sussistano due fattori scriminanti:

  • l’installazione consensuale del programma informatico sul pc di famiglia;
  • il fatto che la successiva divulgazione dei contenuti sia avvenuta nell’ambito di un processo.

In altri termini, l’Installazione di apparecchiature atte ad intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche è lecita se la vittima ne è a conoscenza e la sua privacy non sarà violata se i suoi dati personali verranno trattati per l’esercizio di un diritto nelle opportune sedi.

VP

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