Licenziabile chi parla male del datore di lavoro su Facebook (Cass. Civile, sez. Lavoro, ord. n. 28878 del 12/11/2018)

Read 4 min

Facebook è un luogo di incontro, seppur virtuale, di persone ma anche di idee. Sui social network ci si sente liberi di dire la propria su ogni argomento e nelle forme più varie. Talvolta si esternano le proprie opinioni trascurando quanto queste possano avere un impatto nella vita “reale”. La platea è sempre più vasta e quando i toni si fanno accesi le conseguenze non mancano.

Un post apparentemente personale, pubblicato sulla propria bacheca e destinato alla propria cerchia di amici, può essere motivo di licenziamento quando offensivo della azienda o del datore per cui si lavora.

A sostenerlo è una recente pronuncia della Suprema Corte che ha confermato la legittimità di un licenziamento disciplinare di una donna quale sanzione per aver pubblicato su Facebook messaggi denigratori nei confronti della propria azienda. (Ordinanza del 12 novembre 2018 n. 28878)

La ricorrente aveva impugnato la sentenza della Corte d’Appello di Torino – che confermava la decisione del Tribunale di Alessandria –  ritenendo di essere stata  ingiustamente licenziata per motivi attinenti alla propria vita privata.

In particolare invocava l’art. 8 dello Statuto dei Lavoratori, secondo il quale è fatto divieto al datore di lavoro di svolgere indagini su opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale dello stesso.

Secondo la Corte di Cassazione le affermazioni offensive espresse dalla donna sulla propria bacheca consentivano di condurre un accertamento sulle sue attitudini professionali ed i messaggi postati permettevano di raggiungere un numero indeterminato di utenti con una notevole diffusione potenziale.

Pertanto la condotta extra-lavorativa assume rilevanza quando viola le obbligazioni derivanti dal rapporto lavorativo ed in ogni caso quando incida sfavorevolmente sulle funzionalità del rapporto stesso. Ne consegue che il datore di lavoro potrebbe “ragionevolmente” dubitare dell’effettivo adempimento da parte del lavoratore alle prestazioni professionali future.

Con la sottoscrizione di un contratto di lavoro il lavoratore si impegna a svolgere la prestazione lavorativa nel rispetto dei principi di buona fede, correttezza e fedeltà come previsti civilmente (artt. 1175 – 1375 – 2105 c.c.). Queste regole di condotta condizionano il lavoratore anche nei comportamenti da tenersi fuori da lavoro, al fine di conservare il rapporto fiduciario su cui si fonda lo svolgimento di una professione, dovrà quindi astenersi dal porre in essere condotte in contrasto con la legge in generale ma anche con gli interessi dell’azienda.

La Suprema Corte si era già espressa in tal senso su un caso analogo con la sentenza  n. 10280 del 27 aprile 2018.

La dipendente vittima di licenziamento aveva giustificato le proprie parole su Facebook come uno sfogo personale ed aveva motivato il linguaggio impiegato, più “popolare”, per uniformarsi all’informalità del mezzo utilizzato. Oltretutto dal post pubblicato non si evinceva il nome della azienda.

Anche in questa occasione i Giudici avevano ribadito la legittimità del licenziamento disciplinare sulla base del contenuto denigratorio e della sua diffusione, ravvisando gli estremi per il reato di diffamazione di cui all’art. 595 c.p.

Ciò che rileva non è solo l’offesa in sé quanto l’impatto pubblico che questa ottiene. Difatti Facebook consente di diffondere e condividere i propri post ad un numero indefinito di soggetti con eventuali ripercussioni negative sull’immagine della società. La portata dell’illecito sarà quindi più grave rispetto un insulto verbale che è evidentemente limitato al gruppo di persone presenti.

L’orientamento giurisprudenziale pare essere consolidato in tale direzione, per tali ragioni deve ritenersi disciplinarmente rilevante la condotta tenuta dal lavoratore anche fuori dal contesto professionale ai fini del licenziamento.

E’ quindi legittimo licenziare per giusta causa un dipendente qualora posti messaggi denigratori sui social network, attesa la potenzialità diffusiva del materiale pubblicato. Determinate opinioni espresse in un linguaggio scurrile e diffamatorio possono ledere il decoro e l’immagine della azienda, oltre ad intaccare il vincolo fiduciario che sorregge il rapporto lavorativo. E’ altresì irrilevante l’omessa indicazione del nominativo dell’azienda quando facilmente identificabile.

In conclusione, la condotta posta in essere dal lavoratore integra gli estremi del reato di diffamazione e la libertà di espressione, seppur garantita costituzionalmente, deve essere contenuta nei limiti del rispetto dell’onore e della dignità altrui.

Facebook e i social network in genere sono strumenti idonei alla circolazione rapida ed indiscriminata delle informazioni pubblicate dagli utenti, per assolvere alla finalità per i quali sono stati ideati ovvero quella della costante socializzazione.

Dai social emerge che interessi hai, che squadra tifi, che musica ascolti, di che orientamento sessuale sei, quali idee politiche segui. Emerge la tua personalità, chi sei e quali sono le tue opinioni. Si sottovaluta l’impatto di un post, del numero di persone che possono visualizzarlo e condividerlo. Se ci tieni quindi alla tua riservatezza pesa bene le parole che spendi e valuta se metterle “nero su bianco”.

La mia libertà finisce dove comincia la vostra“. (cit. Martin Luther King)

VP

(1) Commento

  1. […] Leggi anche Licenziabile chi parla male del datore di lavoro su Facebook (Cass. Civile, sez. Lavoro, ord. n. 288… […]

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *