Se in passato quando Facebook ti rimuoveva un contenuto non potevi fare altro che rivolgerti al centro assistenza e accettare la decisione o passare alle vie legali, adesso puoi rivolgerti all’Oversight Board, il comitato di controllo adottato dal social network.

“Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”
E’ notizia di pochi mesi fa la decisione di diversi social network di bannare I profili di Trump per le sue discutibili affermazioni.
Per i sostenitori dell’ex presidente degli Stati Uniti queste censure hanno finalmente svelato il grande potere di cui godono i social network.
Difatti, andando oltre alle qualità ed alle idee politiche più o meno condivisibili del soggetto di cui si presume essere violata la libertà di espressione, ci si domanda fino a che punto una azienda privata possa togliere la parola ad un utente.
I social media possiedono evidentemente un grande potere, ma a quali responsabilità vanno incontro?
Non è a tutti nota l’esistenza di un “Tribunale” istituito da Facebook per redimere controversie di questo tipo.
Da sempre gli utenti possono segnalare contenuti inappropriati o offensivi e da sempre la piattaforma esercita il suo potere di moderazione vagliando la possibilità di rimuoverli.
Tuttavia, se fino a poco fa l’utente a cui veniva rimosso un contenuto o a cui veniva sospesa l’account poteva semplicemente rivolgersi al centro assistenza e, in caso di diniego, alle competenti autorità giudiziarie – con tempistiche e costi che nella maggior parte dei casi facevano desistere il ricorrente – ad oggi gli viene offerta una ulteriore possibilità, il ricorso all’Oversight Board.
Questo comitato nasce con lo scopo di garantire un equo bilanciamento fra diritti e libertà degli utenti (quali la tutela della dignità umana, la libertà di espressione, il diritto alla corretta informazione, la protezione dei dati personali, i diritti di proprietà intellettuale), gli standard della Community e le varie leggi applicabili.
Cos’è
L’Oversight Board di Facebook è un organo di vigilanza istituito dalla stessa piattaforma con la funzione di garantire un controllo sulla rimozione dei contenuti o sulle sospensioni di account effettuate dal social network come provvedimento per la violazione delle regole della community.
Nasce ufficialmente da un’idea di Mark Zuckerberg nel 2018 in seguito alla scandalo privacy di Cambridge Analytica.
In quell’occasione Facebook ebbe un duro colpo e, inutile anche a dirsi, i danni economici e di reputazione che la società patì furono significativi.
Per tale ragione si fece strada il progetto di istituire un organo di vigilanza, se non altro per recuperare la fiducia degli utenti del social, che all’epoca superavano già i 2 miliardi in tutto il globo.
La determinazione della struttura del board e della gestione del processo decisionale richiesero diversi incontri e consultazioni pubbliche.
Sino ad arrivare al settembre 2019 quando venne finalmente pubblicato l’Oversight Board Charter, ovvero il documento che delineava la governance del comitato.
Dal dicembre 2019 a questo comitato si affianca l’Oversight Board Trust, ovvero un organo indipendente a garanzia dell’imparzialità dell’Oversight Board che si occupa della retribuzione dei membri dell’organismo.
E’ bene precisare che è la stessa società Facebook che provvede a rimpinguare i fondi per stipendiare i componenti del Board.
Tuttavia, per salvaguardare l’imparzialità dell’organo, Facebook non ha la facoltà di rimuovere i membri che lo compongono, nemmeno se dipendenti dell’azienda.
Inoltre, da gennaio 2020 il Board dispone di Statuti (cd. Oversight Board Bylaws Summary Chart) nei quali sono raccolte tutte le regole di condotte e di procedura e che fungono tanto da atto costitutivo quanto da vero e proprio regolamento interno.
Giuridicamente lo Statuto permette alle decisioni del Board di porsi come fonti di primo grado nei confronti delle decisioni di Facebook che hanno a che fare con la libertà di espressione degli utenti (e che non riguardano violazioni di copyright).
L’Oversight Board, che da alcuni viene definito la “Corte Suprema di Facebook”, si colloca all’apice di una struttura gerarchica, che richiama verosimilmente i nostri tre gradi di giudizio.
Per intenderci, in prima istanza ci si rivolge al centro di assistenza di Facebook/Instagram, in secondo grado vi è una sorta di Corte d’Appello rappresentata dalla giuria (ne parleremo a breve) e solo dopo aver esaurito questi rimedi ci si rivolge al Board.
Il Comitato di vigilanza di Facebook è operativo, di fatto, da ottobre 2020 e quale organismo indipendente e collegiale è costituto da 40 membri, selezionati con una complessa procedura volta a favorire una composizione variegata per garantire pluralismo geografico, culturale e politico.
I suoi componenti infatti provengono da più di 27 paesi e parlano altrettante lingue diverse, appartengono a generazioni diverse e sono stati scelti tra dipendenti della piattaforma, esperti (accademici, magistrati) o leader pubblici (politici, attivisti).
Come opera e che ruolo ricopre
Nella prassi è l’utente che interpella l’Oversight Board quando intende far rivedere la decisione che la piattaforma Social ha preso in merito al suo account: dalla rimozione di un post alla disattivazione del profilo.
Come si evince dallo Statuto, l’utente deve essere titolare di un account Facebook (o Instagram) attivo e deve avere già ottenuto una risposta definitiva dall’assistenza.
Infatti, entro 15 giorni dal ricevimento della stessa, l’utente può rivolgersi al Board ed avanzare la sua richiesta, chiaramente motivandola.
Ma anche lo stesso social network può consultare il comitato per questioni di rilievo, sottoponendogli potenziali casi di interesse fra le segnalazioni ricevute ma anche per eventualmente sollecitare una urgente revisione della risposta della assistenza.
Rimane tra i poteri del board decidere quale delle questioni presentagli richiederà un controllo più accurato.
Una volta individuato il caso più ostico, una giuria ad hoc selezionata (ovvero una sezione dei componenti del comitato) lo esamina e trasmette la bozza della propria decisione al consiglio intero.
Entro 90 giorni, dalla richiesta di assistenza, il board deve rendere per iscritto la propria risposta definitiva – in genere apporta qualche modifica alla bozza della giuria – corredata di motivazione.
In via generale, la decisione finale del consiglio – che viene resa pubblica e da tutti consultabile, oscurando per privacy l’identità degli utenti coinvolti – può rispecchiare quella fornita dal servizio di assistenza di Facebook o rigettarla. In quest’ultimo caso, in accoglimento del ricorso dell’utente, riattiva il suo account o riabilita il contenuto rimosso.
Tale decisione è vincolante e immediatamente esecutiva. Può essere contestata solo se in contrasto con le leggi vigenti.
Questioni giuridiche
Il fatto che un social network, ovvero una azienda privata, decida di dotarsi di un proprio “tribunale” fa senza dubbio discutere.
Il Comitato è un organo stragiudiziale, terzo ed imparziale che si atteggia ad arbitro, rappresentando quindi una alternativa alle vie ordinarie per la risoluzione dei contrasti tra gli utenti e la piattaforma social.
Questo organo di risoluzione delle controversie decide, discrezionalmente, quali ricorsi trattare, limitandosi a quelli più controversi in tema di diritti fondamentali e, come detto, emette decisioni vincolanti tra le parti.
Se da una prima analisi, parrebbe assimilabile ad una forma di arbitrato, di fatto presenta delle differenze. Il Board, infatti, non viene nominato da entrambe le parti di comune accordo, ma è un organo precostituito da Facebook e da questa finanziato.
Pertanto la acclamata imparzialità rischia di non essere del tutto effettiva poiché l’utente sostanzialmente non ha altra scelta.
Inoltre posto che le decisioni che emette sono indiscutibili, ci si domanda in che modo si possano inserire in contesti più ampi e, soprattutto, giuridicamente riconosciuti.
Certamente gode di un modello organizzativo più complesso, rispetto al classico sistema di segnalazione di Facebook ma in ogni caso, il dubbio permane:
è lecito che una azienda privata assuma decisioni irrevocabili che possono incidere sui diritti fondamentali dell’individuo, quale per esempio la sua libertà di espressione?

Può un “tribunale social” decidere sui diritti fondamentali dei suoi iscritti?
Malgrado il Board sia stato istituito per perseguire finalità concrete (e tutto sommato anche nobili) come l’intento di delineare una governance di Internet, lo scetticismo c’è.
Ci si interroga se in uno stato di diritto si possa consentire ad una società privata di godere di un potere decisionale così impattante sulla vita delle persone.
Spesso l’utente che decide di iscriversi ad una piattaforma non sa che con l’iscrizione accetta integralmente le condizioni poste unilateralmente dal social tantomeno è a conoscenza dell’esistenza di tali meccanismi per redimere i potenziali contrasti.
L’utente deve essere messo nelle condizioni di sapere e comprendere che alcuni suoi diritti potranno essere compressi in luogo di un bene superiore, individuato tra gli standard della community.
Le decisioni del Board potranno infatti limitare la libertà di espressione di un utente ma anche il suo diritto ad una corretta informazione. Potranno altresì avere ad oggetto la violazione di dati personali, la manipolazione di dati per una campagna elettorale ma anche casi sulla dignità umana.
E’ quindi sufficiente che l’utente aderisca ad un social per accettare l’esistenza di un giudice supremo che possa stabilire chi può dire cosa ed in che limiti?
Un’altra preoccupazione è legata al fatto che un sistema del genere possa rappresentare un precedente. Se altri privati decidessero di realizzare comitati con poteri analoghi?
Che il mondo della rete corra veloce pare evidente, come lo è il fatto che spesso la legge arranchi per stargli dietro.
La macchina della giustizia è articolata, onerosa ed i tempi sono sempre molto lunghi, ma sono bastati questi “nei” perché un sistema di questa portata si affiancasse a pieno titolo ai sistemi giudiziari tradizionali?
Da cittadini di un paese democratico dovrebbe farci riflettere, e forse anche spaventarci, l’esistenza di un “tribunale social”. Come al solito si auspica un intervento serio e celere del legislatore affinché la giustizia “online” vada in sincrono con quella “offline”.
VP