La Corte di Cassazione è intervenuta recentemente con la sentenza n. 34831/2020 sul reato di diffamazione aggravata compiuta a mezzo posta elettronica certificata (pec), soffermandosi sulla scriminante del diritto di critica e sulla valutazione del requisito della continenza.

Sommario
La vicenda
Nel caso in esame il ricorrente veniva condannato per il reato di diffamazione ex art. 595 c.p. per aver trasmesso una e-mail certificata (PEC) al dirigente del settore urbanistica del Comune di Asti, dal contenuto ritenuto offensivo.
Avverso tale decisione ricorreva in Cassazione eccependo la non configurabilità del reato imputatogli.
In primo luogo, perché le note trasmesse al dipendente comunale erano a lui esclusivamente destinate, anche tenuto conto anche del mezzo utilizzato (posta elettronica certificata) nonché del formato degli allegati (zip) ad esso corredati.
Secondariamente, deduceva censura anche riguardo alla natura delle affermazioni ritenute diffamatorie, essenzialmente tecniche e fondate nel contenuto.
La decisione della Suprema Corte
La quinta sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza in commento n. 34831/2020 accoglie il ricorso del ricorrente, ritenendo che il fatto non costituisce reato, in presenza del legittimo esercizio del diritto di critica.
Sul mezzo impiegato dal ricorrente e sull’accessibilità dei terzi
La Corte di Cassazione ha, in più occasioni, affermato che:
In tema di diffamazione l’invio di e-mail a contenuto diffamatorio, realizzato tramite l’utilizzo di internet, integra un’ipotesi di diffamazione aggravata, quando plurimi ne siano i destinatari, in presenza della prova dell’effettivo recapito dello stesso, ovvero che il messaggio sia stato “scaricato” mediante trasferimento sul dispositivo del destinatario.
Inoltre, in caso di invio multiplo, realizzato con lo strumento del “forward” a pluralità di destinatari, il reato di diffamazione si configura, invero, in forma aggravata ai sensi dell’art. 595, comma 3, c.p., in considerazione del “particolare e formidabile mezzo di pubblicità della posta elettronica”.
In particolare, secondo la Suprema Corte, anche nell’ipotesi di diretta ed esclusiva destinazione del messaggio diffamatorio ad una sola persona determinata, quando l’accesso alla casella mail é consentito almeno ad altro soggetto – ai fini della consultazione, estrazione di copia e di stampa – e tale accesso plurimo sia noto al mittente (o, quantomeno, prevedibile secondo l’ordinaria diligenza), l’utilizzo della posta elettronica non esclude la sussistenza del requisito della “comunicazione con più persone”.
Trasmettere una e-mail non è differente dall’ordinario inoltro per posta ordinaria, in busta chiusa non recante la dicitura “riservata/personale”, posto che tale modalità di comunicazione può essere visionata anche da addetti all’apertura e smistamento della corrispondenza, o a successivi destinatari, come nel caso di specie, competenti per le fasi del procedimento amministrativo al quale la comunicazione medesima abbia dato avvio. Analogamente per gli allegati uniti allo stesso messaggio di posta.
Tali principi trovano applicabile anche per le comunicazioni trasmesse a mezzo pec.
La PEC, per definizione, è un particolare tipo di posta elettronica, che consente di assegnare ad un messaggio di posta elettronica lo stesso valore legale di una tradizionale raccomandata con avviso di ricevimento, garantendo così la prova dell’invio e della consegna grazie alle peculiari modalità di trasmissione certificata da parte dei gestori autorizzati.
Su tali gestori esercita funzioni di vigilanza l’AGID (Agenzia per l’Italia Digitale), nel quadro del controllo e coordinamento dei servizi digitali (certificati digitali, PEC, firma digitale, marca temporale, sigillo elettronico, etc.) e della qualifica dei relativi provider.
La casella di posta elettronica certificata nella pratica non si differenzia, dunque, da una normale casella di posta elettronica, se non per ciò che riguarda il meccanismo di comunicazione e la presenza delle ricevute inviate da gestori PEC al mittente al destinatario.
Dal punto di vista tecnico, il destinatario non visualizza l’e-mail dal mittente, ma un messaggio automatico generato dal gestore di posta del mittente, che contiene due allegati:
- la mail originale del mittente con relativi allegati, ed
- un file xml (file di testo o accessibile tramite software) con le stesse informazioni della notifica di invio trasmesso al mittente (ID del messaggio; luogo, data e ora di invio; dati di intestazione, quali e-mail del destinatario, tipo ed oggetto).
Tutto nel rispetto delle specifiche tecniche fissate dal DPR n. 68/2005 e s.m., ed alle norme del Codice dell’Amministrazione digitale (CAD – D.Lgs n. 235/2010), che ne stabiliscono la validità legale, le regole e le modalità di utilizzo.
Infine, al fine di garantire autenticazione, integrità dei dati e confidenzialità, il mittente potrà certificare e firmare elettronicamente, ovvero criptare il contenuto del messaggio.
Al pari di una e-mail ordinaria, tuttavia, anche una e-mail certificata può potenzialmente essere visionata da terzi, diversi dal destinatario, poiché la certificazione di quest’ultima attiene ai soli elementi estrinseci della comunicazione (data e ora di ricezione), e non già alla esclusiva conoscenza per il destinatario della e-mail originale.
Non solo. Laddove il mittente opti per la comunicazione via PEC – proprio per la prova della ricevuta, avente valore legale, da parte del destinatario – è richiesto un rafforzato onere di giustificazione riguardo l’elemento soggettivo del reato di diffamazione, in particolare con riferimento alla prevedibilità in concreto dell’accessibilità di terzi al contenuto dichiarativo.
In tal senso, potrà essere presa in considerazione la conoscenza della prassi in uso al destinatario, ovvero della natura stessa dell’atto, se è destinato all’esclusiva conoscenza del medesimo o se, invece, finalizzato all’attivazione di poteri propri di quest’ultimo che, necessariamente, implicano l’accessibilità dell’informazione da parte di terzi.
Nella vicenda in esame, secondo gli ermellini, la sentenza impugnata offre, con argomentazioni incensurabili, sia la prova dell’elemento strutturale di fattispecie (destinazione plurisoggettiva della comunicazione) che del dolo nelle osservazioni feniche a firma dell’imputato, accettandone della diffusività.
Sul diritto di critica e sul principio di continenza
Sulla questione la Suprema Corte, richiama il consolidato orientamento di legittimità, secondo il quale:
In tema di diffamazione realizzata mediante esposti indirizzati ad organi di disciplina o, in genere, mediante osservazioni finalizzate all’esercizio di poteri di controllo e verifica, integra il reato – sotto il profilo materiale – la condotta di colui che invii comunicazione gratuitamente denigratorie, considerato che la destinazione alla divulgazione – come già rilevato – può trovare il suo fondamento, oltre che nella esplicita volontà del mittente-autore, anche nella natura stessa della comunicazione, in quanto propulsiva di un determinato procedimento (giudiziario, amministrativo, disciplinare) che deve essere portato a conoscenza di altre persone, diverse dall’immediato destinatario, sempre che l’autore della missiva prevedesse o volesse la circostanza che il contenuto relativo sarebbe stato reso noto a terzi.
Tale contesto, tuttavia, impone la valutazione della possibile sussistenza della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p. o della causa di non punibilità ex art. 598 c.p., rilevabili “ex ufficio” anche in sede di legittimità, ricorrendo l’esimente del diritto di critica quando i fatti esposti siano veri o quantomeno l’accusatore sia fermamente ed incolpevolmente, perché erroneamente, convinto della loro veridicità.
Ciò detto, non configura il delitto di diffamazione la condotta di chi invii una segnalazione, ancorché contenente espressioni offensive, alle competenti autorità, volta ad ottenere un intervento per rimediare ad illegittimità amministrativa, mediante attivazione dei poteri di autotutela, atteso che, in questo caso, ricorre la causa di giustificazione di quell’art. 51 c.p., secondo cui:
L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità.
Nella fattispecie, l’agente ha esercitato un diritto di critica ed assolto l’onere di deduzione dei fatti nella convinzione, anche erronea, del rilievo dei medesimi ai fini richiesti.
La Corte, in tal senso, sottolinea che:
Il diritto di critica si concretizza in un giudizio valutativo che postula l’esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto del discorso critico ed una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto di esprimere e, conseguentemente, esclude la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purché tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali all’opinione o alla prospettazione di una violazione in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi.
In ogni caso, perché ricorra il legittimo esercizio del diritto di critica, sarà necessario valutare il requisito della continenza, tenendo conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dalla gente, pur aspri e forti, non siano gravemente infamanti e gratuiti, ma siano, invece, comunque pertinenti al tema di discussione ed alla sede dell’esternazione, che tollera limiti più ampi alla tutela della reputazione.
Sotto il profilo della pertinenza espressiva, secondo gli ermellini:
La sentenza impugnata non ha fatto buon governo del principio secondo cui il requisito della continenza postula una forma espositiva corretta della critica rivolta – e ciò è strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmoda nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione – e non può ritenersi superato per il solo fatto dell’utilizzo di termini che, pur avendo accezioni indubitabilmente offensive, hanno però anche significati di mero giudizio critico negativo di cui deve tenersi conto anche alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato, rispetto al quale assume rilevanza il profilo soggettivo del dichiarante e la sua capacità espressiva in riferimento a livello culturale sociale.
Conclusione
In conclusione, perché si integri il reato di diffamazione, come disciplinato all’art. 595 c.p., dovrà essere dimostrata la compresenza dei seguenti presupposti essenziali:
- assenza dell’offeso: impossibilità che la persona offesa percepisca direttamente l’addebito diffamatorio;
- offesa alla reputazione: possibilità che l’uso di parole diffamatorie possano ledere la reputazione dell’offeso.
- presenza di almeno due persone che siano in grado di percepire le parole diffamatorie (esclusi il soggetto agente e la persona offesa).
Con quest’ultimo aspetto si realizza la diffusività del messaggio denigratorio che si può attuare con diversi strumenti, compreso l’invio di e-mail anche certificate, come chiarito con la sentenza in commento dalla Suprema Corte.
Tutto ciò premesso, potrà configurarsi la diffamazione anche via PEC ed anche se trasmessa ad un destinatario, tuttavia tale condotta potrà essere scriminata nel caso in cui si eserciti il diritto di cronaca, critica e satira, quando attuata nei limiti di verità, continenza e pertinenza, come nel caso poc’anzi esaminato.
VP