Videosorveglianza sui luoghi di lavoro: è legittimo il “controllo difensivo” sul lavoratore

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Non si configura il reato di cui all’art. 4, Legge n. 300/1970, cd. Statuto dei Lavoratori, se l’impianto di videosorveglianza installato dal datore di lavoro, senza previo accordo sindacale, mira ad accertare gravi condotte illecite dei dipendenti.
Lo chiarisce la terza sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 3255 depositata il 27 gennaio 2021.

La vicenda

Nel giugno 2019 il Tribunale di Viterbo condanna il titolare di una ditta esercente l’attività di commercio al dettaglio al pagamento di una ammenda di 200 mila euro per il reato di cui agli artt. 4, commi 1 e 2, ed art. 38 dello Statuto dei lavoratori (L. n. 300 del 1970).

Nello specifico, l’imputato aveva installato impianti video all’interno della propria azienda utilizzabili per il controllo a distanza dei dipendenti, senza aver richiesto l’accordo delle rappresentanze sindacali aziendali o dell’Ispettorato del lavoro.

Avverso tale decisione l’uomo ricorreva in Cassazione. A suo dire, infatti, gli impianti video installati non erano strumenti di controllo, lesivi della libertà e dignità dei lavoratori, bensì sistemi difensivi a tutela del patrimonio aziendale.

Il ricorrente chiariva che quegli apparecchi erano stati adottati a seguito del verificarsi di mancanze di merce nel magazzino ed erano rivolti unicamente verso la cassa e le scaffalature.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte accoglie il ricorso ritenendolo fondato.

Il focus della questione riguarda la configurabilità del reato per la violazione della disciplina di cui all’art. 4 Legge 20 maggio 1970, n. 300.

Segnatamente, quando l’impianto audiovisivo viene installato sul luogo di lavoro, in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro, allo scopo di tutelare il patrimonio aziendale.

Con questa pronuncia la Corte ha colto l’occasione per definire la portata ed i limiti di operatività dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, pur non mettendone in discussione la sua rilevanza penale.

Con riguardo a quest’ultimo aspetto, è infatti chiara l’indicazione data dall’art. 171 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, nel testo vigente, per effetto delle modifiche recate dall’art. 15, comma 1, lett. f), d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101, il quale prevede: 

La violazione delle disposizioni di cui agli articoli 4, comma 1, e 8 della legge 20 maggio 1970, n. 300, è punita con le sanzioni di cui all’articolo 38 della medesima legge

L’art. 38 legge n. 300 del 1970, a sua volta, nel testo attualmente vigente dopo le modifiche di cui all’art. 179 d.lgs. n. 196 del 2003, stabilisce: 

Le violazioni degli articoli 2, 5, 6 e 15, primo comma, lettera a), sono punite, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, con l’ammenda da euro 154 a euro 1.549 o con l’arresto da 15 giorni ad un anno.

Pertanto nulla quaestio che la violazione della disciplina di cui all’art. 4 Statuto dei lavoratori costituisce illecito penale in forza di quanto dispone l’art. 171 d.lgs. n. 196 del 2003, nel testo vigente dopo la riforma di cui alla d.lgs n. 101 del 2018, il quale rinvia all’art. 38 della legge n. 300 del 1970 per la individuazione delle sanzioni applicabili.

Dopo essersi soffermati sulla indiscutibile rilevanza penale della fattispecie in esame, gli ermellini chiariscono i limiti alla sua configurabilità, posti i diversi orientamenti della giurisprudenza – anche civile – di legittimità sulla materia.

Il citato art. 4, in cui rinviene la descrizione della fattispecie incriminatrice, ha subito nel tempo delle modifiche.

In particolare, nei limiti di ciò che rileva ai fini della questione in esame, pare utile raffrontare la versione originaria con quella vigente.

Il testo originario dell’art. 4, nei primi due commi, prevedeva quanto segue:

È vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività del lavoratore. 

Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti.”

Il testo vigente dell’art. 4, comma 1 – per effetto delle riforme recate prima dall’art. 23, comma 1, d.lgs. 14 settembre 2016, n. 151, e poi dall’art. 5, comma 2, d.lgs. 24 settembre 2016, n. 185 – dispone: 

Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione della sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi.

Appare evidente che la successione di discipline normative non abbia apportato significative variazioni alla fattispecie incriminatrice. 

Di fatto la condotta vietata è la stessa. Le modifiche legislative, piuttosto, riguardano l’individuazione dei soggetti a cui compete il potere di concordare o autorizzare l’installazione degli impianti.

Premesso ciò, ai fini dell’individuazione degli elementi costitutivi della fattispecie appare utile esaminare le interpretazioni giurisprudenziali sulla questione, anche in relazione al testo previgente dell’art. 4 legge n. 300 del 1970.

Trattasi innanzitutto di un reato di pericolo, essendo diretto a salvaguardare le possibili lesioni della riservatezza dei lavoratori.

In tema di configurabilità del reato relativo alla illegale installazione di impianti audiovisivi sui luoghi di lavoro é quindi penalmente rilevante anche la sola potenzialità del controllo a distanza dei dipendenti.

Sul punto la giurisprudenza é infatti concorde nel ritenere che, ai fini della integrazione del reato di cui si tratta, non è necessaria la verifica della funzionalità dell’impianto né del concreto utilizzo dello stesso.

In contrasto, si segnala un passato orientamento secondo il quale:

Ai fini dell’operatività del divieto di utilizzo di apparecchiature per il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori ex L. n. 300 del 1970, art. 4, è necessario che il controllo riguardi (direttamente o indirettamente) l’attività lavorativa, mentre devono ritenersi certamente fuori dall’ambito di applicazione della norma i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (i cosiddetti controlli difensivi).

La Suprema Corte, nel suo iter logico-giuridico, indaga dapprima sulla elaborazione giurisprudenziale in tema di utilizzabilità come prove nel processo penale dei risultati delle videoriprese effettuate sul luogo di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, in assenza di previo accordo con le rappresentanze sindacali competenti e di previa autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro.

Secondo un orientamento ampiamente consolidato, sono utilizzabili nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore subordinato, i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all’interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore di lavoro per esercitare un controllo per tutelare il patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, in quanto le norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza non proibiscono i cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l’esistenza di un divieto probatorio.

In particolare: 

Gli artt. 4 e 38 dello Statuto dei lavoratori implicano l’accordo sindacale a fini di riservatezza dei lavoratori nello svolgimento dell’attività lavorativa, ma non implicano il divieto dei cd. controlli difensivi del patrimonio aziendale da azioni delittuose da chiunque provenienti. Pertanto in tal caso non si ravvisa inutilizzabilità ai sensi dell’art. 191 c.p.p. di prove di reato acquisite mediante riprese filmate, ancorché sia perciò imputato un lavoratore subordinato.

In linea con la precedente giurisprudenza di legittimità civile e penale secondo la quale le norme di cui agli artt. 4 e 38 della legge n. 300 del 1970 tutelano la riservatezza del lavoratore nello svolgimento della sua attività, “anche perché la sua libertà di comportamento contribuisce al risultato che con il lavoro assicura all’azienda”. Pertanto, “la tutela della sua riservatezza si correla all’osservanza del proprio dovere di fedeltà, e, ne consegue che, “la finalità di controllo a difesa del patrimonio aziendale non è da ritenersi sacrificata dalle norme dello Statuto dei lavoratori”.

Ed ancora, la giurisprudenza civile di legittimità, ritiene che i controlli difensivi da parte del datore esulino dall’ambito di applicazione dell’art. 4, e non richiedano l’osservanza delle garanzie ivi previste “quando diretti ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale, tanto più quando disposti ex post, ossia dopo l’attuazione del comportamento in addebito, così da prescindere dalla mera sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa.”

Il Collegio chiarisce che questo principio si fonda sul presupposto che: 

L’interpretazione della disposizione [l’art. 4 legge n. 300 del 1970] va ispirata ad un equo e ragionevole bilanciamento fra le disposizioni costituzionali che garantiscono il diritto alla dignità e libertà del lavoratore nell’esercizio delle sue prestazioni oltre al diritto del cittadino al rispetto della propria persona (artt. 1, 3, 35 e 38 Cost.), ed il libero esercizio delle attività imprenditoriale (art. 41 Cost.), con l’ulteriore considerazione che non risponderebbe ad alcun criterio logico-sistematico garantire al lavoratore – in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con la sanzione espulsiva – una tutela alla sua “persona” maggiore di quella riconosciuta ai terzi estranei all’impresa.

Infine, aggiunge la Corte, tale assunto risulta essere coerente con i principi dettati dall’art. 8 della CEDU in base al quale nell’uso degli strumenti di controllo, deve individuarsi un giusto equilibrio fra i contrapposti diritti sulla base dei principi della “ragionevolezza” e della “proporzionalità”.

Alla luce di queste pronunce, la S.C. delinea quindi i limiti di operatività della norma, con il chiaro intento di scongiurare interpretazioni eccessivamente ampie della stessa.

Rileva, in prima battuta, che il testo della disposizione appena citata, nell’originaria come nella vigente formulazione, prevede la necessità di un preventivo accordo con le organizzazioni sindacali, o di una preventiva autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro, quando derivi “anche” la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.

Emerge pertanto che la previsione normativa non sembra potersi riferire ad impianti che possano controllare in via del tutto occasionale l’attività del singolo dipendente (si pensi ad apparecchi puntati sulla cassaforte o sugli scaffali).

Ed in secondo luogo, sottolinea che al terzo estraneo all’impresa devono essere riconosciute le stesse garanzie assicurate al lavoratore, qualora quest’ultimo ponga in essere comportamenti antigiuridici per il quale potrebbe essere licenziato o addirittura incorrere in una responsabilità penale.

Con l’art. 4 il legislatore ha inteso tutelare le ragioni dell’impresa evitando, allo stesso tempo, soluzioni che possano determinare una significativa interferenza sul diritto del lavoratore alla dignità e libertà nell’esercizio delle sue prestazioni sulla base di determinazioni unilaterali del datore di lavoro.

In definitiva, secondo la Cassazione la decisione oggetto di ricorso che ha affermato la penale responsabilità del ricorrente non ha tuttavia chiarito se l’installazione del sistema di videosorveglianza rilevato fosse strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, né se l’utilizzo del precisato impianto comportasse un controllo non occasionale sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti, o, comunque, dovesse restare necessariamente “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite di questi ultimi.

Conclusione 

La sentenza in commento legittima l’installazione di telecamere anche sui luoghi di lavoro laddove assolva la funzione di “controllo difensivo”.

Il datore di lavoro ha, dal canto suo, diritto di prevenire e tutelarsi nei confronti di dipendenti infedeli e disonesti, anche in assenza di accordo sindacale, posto che lo Statuto dei lavoratori non gli interdice la possibilità di effettuare i c.d. “controlli difensivi”.

In conclusione, 

Deve escludersi la configurabilità del reato concernente la violazione della disciplina di cui all’art. 4 legge 20 maggio 1970, n. 300, quando l’impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate, o di autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre, però, che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti, o debba restare necessariamente “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi.

VP

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