WhatsApp: circostanza aggravante del reato di Stalking (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 3989 del 28 gennaio 2019)

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Sussiste la circostanza aggravante dell’uso del mezzo informatico se lo stalking avviene con Whatsapp. E’ di questo avviso la Corte di Cassazione nella sentenza n. 3989/2019.

La vicenda processuale riguardava un uomo condannato alla pena di 6 mesi di reclusione per il reato di stalking di cui all’art. 612-bis c.p. .

L’imputato impugnava la sentenza di patteggiamento, ex art. 444 c.p.p., pronunciata dal Tribunale di Verbania, contestando che fosse stata resa in difetto del suo consenso e sulla base di una modifica della fattispecie imputatagli. Il ricorrente infatti sosteneva che la pena inflittagli fosse stata più severa per la presenza di una circostanza aggravante insussistente.

La Suprema Corte rigettava il ricorso ritenendo non essere intervenuta nessuna alterazione del fatto descritto nel capo di imputazione. Precisava, peraltro, che ai fini dell’applicazione della pena concordata si era semplicemente specificata la necessità di considerare WhatsApp, il mezzo con il quale si sono perpetrate le molestie, una circostanza aggravante poiché riconducibile alla categoria dei cd. “mezzi informatici”.

Il reato di stalking si realizza con una serie di atti persecutori che generano nella vittima uno stato di ansia e paura e minano il normale svolgimento della sua vita quotidiana.

Questo delitto si distingue dal reato di molestia, di cui all’art. 660 c.p., perché richiede che le condotte siano reiterate nel tempo ed idonee a cagionare nella vittima uno stato di ansia e di paura costante e grave oppure ad infonderle timore per la propria incolumità o di affetti e familiari oppure ad alterarne le abitudini.

Ciò che caratterizza questo illecito è quindi la reiterazione. Sono irrilevanti le modalità o i mezzi con i quali le intimidazioni sono poste in essere.

I pedinamenti, gli appostamenti, le telefonate insistenti, le molestie sono le azioni tipiche dello stalker, ma il campionario è vasto. Il progresso tecnologico ha favorito un affinamento di queste tecniche criminali che ora si manifestano anche con messaggi, chat, mail e con ogni altro mezzo che la tecnologia moderna offre. In ogni caso il fine ultimo è sempre il medesimo: terrorizzare la vittima.

L’elemento costitutivo del reato, ovvero l’intrusione illecita ed assillante dell’agente nella vita della persona offesa, si realizza indipendentemente dall’incontro fisico tra i soggetti. Tale comportamento pressante può avvenire anche con l’invio ripetuto di messaggi dal contenuto ingiurioso finalizzato a destabilizzare l’equilibro della vittima.

Come noto, i social network e le app di messaggistica, vengono impiegati da un numero indefinito di utenti in tutto il mondo per gli scopi più disparati, talvolta anche per la commissione di illeciti. D’altronde tali strumenti si prestano molto bene a dinamiche criminali attesa la facilità e la rapidità nel raggiungere e controllare la vittima, ovunque sia.

Gli Ermellini, che già in passato si erano espressi sulla materia prevedendo che le molestie ed in particolare lo stalking si possano realizzare anche via WhatsApp, con la recente pronuncia sono tornati sull’argomento chiarendo che questa applicazione di messaggistica istantanea è da considerarsi a tutti gli effetti un mezzo informatico.

Questa circostanza aggravante è stata introdotta al 2° comma dell’art. 612-bis c.p. dall’art. 1, comma 3, lett. a) del D.L. n. 93/2013, convertito nella Legge n.119/2013, in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere.

La finalità di questo Decreto Legge è quella di inasprire, per finalità dissuasive, il trattamento punitivo degli autori di questi reati, in luogo del susseguirsi negli ultimi anni di eventi di gravissima efferatezza, in particolare in danno delle donne.

Il conseguente allarme sociale, deve prendere anche in considerazione del progresso tecnologico e degli strumenti informatici utilizzati per compiere questi delitti. E’ questa la ragione per la quale WhatsApp, secondo la Corte di Cassazione, è da annoverare a tutti gli effetti tra i mezzi informatici.

Ciò detto, il reato di stalking che si realizza mediante l’impiego di Whatsapp assumerà una forma aggravata con la conseguente applicazione di una pena più rigida. Spetterà naturalmente al Giudice, ai fini dell’accertamento della rilevanza penale degli atti persecutori, valutare, caso per caso, il contenuto e la frequenza delle comunicazioni acquisite in giudizio.

VP

Si riporta, qui di seguito, il testo integrale della sentenza trattata.

Cassazione penale, sez. V,11/10/2018, (ud.11/10/2018,dep.28/01/2019)n.03989

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 27/04/2017 il Tribunale di Verbania ha applicato, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., a OMISS la pena di sei mesi di reclusione, in relazione al reato di cui all’art.612-bis cod. pen., rilevando:

a) che la circostanza aggravante dell’uso del mezzo informatico,in ragione dell’impiego di WhatsApp, faceva parte del contenuto descrittivo dell’imputazione e doveva essere ritenuta sub valente rispetto alle concordate circostanze attenuanti generiche;

b) che l’imputato doveva essere condannato alla rifusione delle spese di assistenza e di rappresentanza, liquidate in euro 2.300,00 per compensi, oltre accessori di legge.

2. Nell’interesse dell’imputato è stato proposto ricorso per cassazione, affidato ai seguenti motivi.

2.1 Con il primo motivo si lamentano vizi motivazionali e violazione di legge, rilevando:

a) chela motivazione adoperata dal giudice in sentenza, per giustificare l’ammissione della parte civile, non era coerente con quella contenuta nell’ordinanza;

b) che, in particolare, in quest’ultima si rilevava che la somma di euro 1.500,00 non risultava che fosse stata versata ad integrale risarcimento del danno subito;

c) che peraltro la parte civile, oltre a non esporre le ragioni giustificative della domanda, non aveva quantificato il danno nell’atto di costituzione né aveva argomentato in ordine all’inadeguatezza della somma sopra indicata a ristorare il pregiudizio subito;

d) che, quanto alle argomentazioni sviluppate in sentenza, la parte civile non può intervenire sulla congruità della pena o sulla concedibilità della sospensione condizionale della pena.

2.2 Con il secondo motivo si lamentano vizi motivazionali e violazione di legge in relazione alla liquidazione delle spese di assistenza e di rappresentanza della parte civile, non sorretta da alcuna argomentazione, tanto più necessaria, in quanto, nella specie, l’entità della somma non corrispondeva all’attività svolta secondo le voci e le tariffe di cui al d.m. n. 55 del 2014.2.3Con il terzo motivo si lamentano vizi motivazionali e violazione di legge, per avere il Tribunale pronunciato la sentenza, nonostante l’assenza di consenso dell’imputato all’applicazione della pena in relazione ad un’imputazione modificata e resa più grave dal P.M. per effetto della contestazione di una circostanza aggravante, peraltro del tutto insussistente,non potendo essere qualificata la messaggistica telefonica tra solo due utenti come mezzo informatico.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il terzo motivo, da esaminar e preliminarmente per ragioni di ordine logico, è infondato, dal momento che, come puntualmente rilevato dalla sentenza impugnata, nel caso di specie, non vi è stata alcuna modifica della fattispecie contestata, ma la mera esplicitazione, rispetto al fatto specificamente descritto nel capo di imputazione, della necessità di considerare la circostanza aggravante dell’uso del mezzo informatico quale puntualmente ritenuto l’impiego del sistema di messaggistica WhatsApp – come subvalente, in modo da conservare il risultato sanzionatorio concordato dalle parti.

2. II primo motivo è, nel suo complesso, infondato. II provvedimento che ammette la costituzione di parte civile è inoppugnabile e preclude ogni contestazione in ordine alla legitimatio ad processum, restando solo la possibilità di esaminare la legitimatio ad causam e, in particolare, la configurabilità e sussistenza del diritto sostanziale azionato dalla parte civile nel giudizio penale (Sez. 2, n. 17108 del 22/03/2011, Muscariello, Rv. 250326). In ogni caso, in tema di costituzione di parte civile, l’indicazione delle ragioni che giustificano la domanda risarcitoria è funzionale esclusivamente all’individuazione della pretesa fatta valere in giudizio, non essendo necessaria un’esposizione analitica della causa petendi,sicché per soddisfare i requisiti di cui all’art. 78, lett. d), cod. proc. pen., è sufficiente il mero richiamo al capo di imputazione descrittivo del fatto, allorquando il nesso tra il reato contestato e la pretesa risarcitoria azionata risulti con immediatezza (Sez. 6, n. 32705 del 17/04/2014,Coccia, Rv. 260325). In siffatta cornice di riferimento, la contestazione della sussistenza di un diritto risarcitorio, per effetto della idoneità della somma versata in favore della persona offesa a riparare il danno, è del tutto generica e non riesce a superare il rilievo motivazionale per cui la dazione neppure risultava essere stata effettuata a titolo di integrale ristoro del pregiudizio arrecato.

3. Il secondo motivo è infondato, dal momento che la critica del ricorrente, ancorata ai parametri del d.m. n. 55 del 2014, fa riferimento ai compensi medi previsti per la fase istruttoria (euro 810,00) e alla fase introduttiva (euro 720,00), ma trascura del tutto la voce concernente la partecipazione alla fase decisionale (euro 1.350,00), che, sia pure con riguardo allo specifico apporto che può essere fornito dalla parte civile, non può essere semplicisticamente ed immotivatamente disconosciuta.

4. Alla pronuncia di rigetto consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento, si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 del d. lgs. n. 196 del 2003.

Così deciso in Roma, il 11 ottobre 2018.

Depositata in Cancelleria il 28.01.2019

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